Fonte: X
Sentire una voce nella testa non è (sempre) un segnale preoccupante. No, non stai impazzendo e non sei il protagonista di un thriller psicologico: è solo il tuo discorso interiore che fa il suo lavoro. Quella vocina che commenta, giudica, organizza piani o ti rimprovera per aver dimenticato le chiavi è parte integrante della nostra mente. La scienza la chiama “endofasia” e ne ha fatto oggetto di studio per decenni.
Questo monologo mentale non è solo una colonna sonora dei nostri pensieri: è un vero e proprio linguaggio interno, che spesso assume la forma di dialoghi immaginari, monologhi o riflessioni articolate. E no, non è solo roba da scrittori tormentati: è uno strumento evolutivo utile alla nostra sopravvivenza quotidiana.
Quando parliamo tra noi e noi, il nostro cervello si dà parecchio da fare. Entrano in gioco la corteccia prefrontale, l’area di Broca e quella di Wernicke, oltre all’ippocampo e alla corteccia premotoria. È come se una mini-redazione lavorasse costantemente alla sceneggiatura della nostra vita.
Non tutto però è così organizzato: in momenti di inattività o distrazione, entra in funzione il Default Mode Network. È qui che la voce interiore diventa più morbida, quasi un sussurro mentale. E spesso, proprio in questi momenti “di nulla”, partono i dialoghi più creativi (o bizzarri) che mai avresti ammesso di avere.
Chi pensa che sia solo una brutta copia del linguaggio parlato si sbaglia. Il discorso interiore ha regole tutte sue: è sintetico, frammentario e altamente personalizzato. Può essere un dialogo acceso tra due “versioni” di te stesso o un monologo serissimo che sembri scritto da Shakespeare (o da tua madre quando ti rimprovera).
Curiosamente, quando leggiamo in silenzio – soprattutto romanzi pieni di dialoghi – la nostra voce mentale fa gli straordinari. Molti lettori immaginano le voci dei personaggi con accenti specifici, magari regionali, senza nemmeno accorgersene. Sì, anche se non lo ammetterai mai, hai dato un accento toscano al detective del giallo che stai leggendo.
Il discorso interiore non ci aiuta solo a pianificare la giornata: è una delle basi della nostra identità. Ci riconosciamo nel tempo proprio perché c’è una voce costante che racconta la nostra storia, una sorta di narratore interno che tiene il filo logico della trama (sì, anche quando la trama è un disastro).
E se parli più lingue, la voce interiore può cambiare idioma a seconda di emozioni e contesti. Per esempio, puoi pensare in italiano quando parli d’amore, ma in inglese quando prepari una presentazione. E nei sogni? La voce interiore assume la forma di altri personaggi, spesso antipatici e insistenti. Ma la tua voce, curiosamente, è la grande assente.
Prima che la scienza si appassionasse al tema, la letteratura ci era già arrivata. Autori come Virginia Woolf, James Joyce o Marcel Proust hanno provato a trascrivere il flusso di pensiero umano con il celebre “stream of consciousness”. Non è solo un vezzo stilistico: è il tentativo di riprodurre la complessità della mente in parole.
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In fondo, la voce interiore è quel compagno che non ci lascia mai. A volte è fastidiosa, altre volte brillante, ma è sempre lì. Ascoltarla può aiutarci a conoscerci meglio, anche se ogni tanto sarebbe bello trovare il tasto mute.
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