Fonte: Pixabay
Al giorno d’oggi litigare non si fa più alzando la voce, ma cliccando “invia”. Si chiama fexting, e consiste nel discutere via messaggi di testo: un’abitudine moderna che unisce il bisogno di chiarirsi al desiderio di evitare lo sguardo dell’altro. In pratica, il litigio 2.0: più silenzioso, ma non per questo meno pericoloso.
Secondo la ricercatrice Kory Floyd, la comunicazione testuale durante un conflitto aumenta ansia e frustrazione. Il motivo? Mancano voce, espressioni e gesti: tutti quei segnali che ci aiutano a capire se l’altro è davvero arrabbiato o solo ironico. E così, nel dubbio, si interpreta tutto come un attacco personale.
Molti difendono il fexting sostenendo che scrivere aiuti a riflettere prima di reagire. È vero: una pausa può evitare di dire parole di cui ci si pente. Ma, nella realtà, si finisce spesso per rileggere il messaggio dieci volte, modificarlo altre cinque e inviarlo comunque con un tono passivo-aggressivo che nessuna emoji può davvero addolcire.
Inoltre, i messaggi restano. A differenza di una lite dal vivo, dove la rabbia si dissolve con un abbraccio o un silenzio imbarazzato, la chat conserva tutto: accuse, sarcasmi e screenshot pronti a riemergere alla prima occasione. Il conflitto, così, non finisce mai davvero: si archivia, come una bomba a orologeria digitale.
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Gli esperti di comunicazione invitano a limitare il fexting alle questioni pratiche: orari, liste della spesa, impegni di lavoro. Tutto ciò che non richiede tono, sguardi o empatia. Perché se il messaggio “parliamone dopo” può salvare una giornata, il “come ti permetti?” digitato di getto può rovinarla del tutto. Se la tentazione di discutere via WhatsApp è forte, ricordate che nessun messaggio potrà mai sostituire un buon vecchio chiarimento faccia a faccia. Anche se costa più battere il cuore, almeno non si rischia di inviare l’ennesimo “ok.” con sottotesto esplosivo.
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