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Per anni simbolo di sicurezza e tranquillità, il posto fisso nella pubblica amministrazione oggi somiglia più a un parcheggio forzato che a un traguardo ambito. Secondo una recente indagine della Cisl Funzione Pubblica Lombardia, l’83% dei dipendenti pubblici si dichiara insoddisfatto. Un numero che parla chiaro e che spazza via l’immagine idilliaca dell’impiegato sereno e appagato.
Le ragioni del malcontento sono tante e ben radicate. A partire dagli stipendi, che sembrano essersi cristallizzati nel tempo, mentre il costo della vita corre veloce. La percezione diffusa è quella di uno stipendio che non basta più, soprattutto in grandi città come Milano, dove vivere dignitosamente con uno stipendio pubblico è diventato quasi un esercizio di equilibrismo.
Il confronto con il settore privato non aiuta. Mentre nel pubblico si parla di una media giornaliera di 125 euro, nel privato si sale a 133 euro con picchi anche maggiori. Il problema non è solo economico: è anche psicologico. Il lavoro pubblico è spesso percepito come ripetitivo, privo di stimoli e con poche opportunità di crescita. Una situazione che spegne l’entusiasmo, soprattutto tra i più giovani, sempre più disillusi e restii ad avvicinarsi a questo settore.
Anche la stabilità contrattuale, un tempo considerata un bene prezioso, oggi non basta più a compensare lo squilibrio tra sforzo e soddisfazione. L’età media dei dipendenti pubblici continua a salire, e il ricambio generazionale è al rallentatore. L’idea di trascorrere quarant’anni in un ufficio a far fotocopie o gestire pratiche anonime non sembra allettare le nuove leve.
Lo stress è un altro compagno di scrivania che molti non si aspettavano. I carichi di lavoro sono aumentati, le risorse no. In molti settori, dalla sanità agli sportelli comunali, le pressioni esterne si sommano a quelle interne, con utenti frustrati che scaricano il proprio malcontento su operatori già allo stremo. In certi casi si registrano persino aggressioni verbali e fisiche, segno di un malessere che va ben oltre le mura degli uffici.
Alla frustrazione economica si aggiunge l’assenza di percorsi chiari di valorizzazione. Le promozioni sono rare, spesso legate più all’anzianità che al merito. Una dinamica che genera immobilismo e disillusione, trasformando il “posto sicuro” in una gabbia dorata con la serratura rotta.
Il mito del posto fisso, tanto celebrato in passato da film e commedie, oggi fa sorridere con un velo di malinconia. La realtà restituisce l’immagine di un sistema che fatica a stare al passo con le esigenze dei lavoratori. Il pubblico impiego è ancora una scelta possibile, ma sempre meno desiderata.
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I numeri dell’insoddisfazione parlano chiaro: se non si interviene su stipendi, organizzazione e riconoscimento del merito, sarà difficile attirare nuove energie. E mentre il sogno del posto fisso si sbiadisce, cresce il bisogno di un cambiamento che ridia valore al lavoro pubblico, prima che diventi solo un capitolo nostalgico nei libri di economia del lavoro.
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