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Negli Stati Uniti sta spopolando un nuovo modo di interpretare la genitorialità, il metodo FAFO, acronimo di “Fucking Around and Find Out”. Tradotto in parole semplici, si tratta di un invito a lasciare i figli liberi di sbagliare, sperimentare e soprattutto affrontare le conseguenze delle loro azioni. Una proposta che, almeno sulla carta, dovrebbe ridurre le ansie tipiche dei modelli iperprotettivi che hanno plasmato buona parte della Generazione Z.
La filosofia alla base è chiara: se i bambini non hanno mai la possibilità di cadere, come potranno imparare a rialzarsi? Per i sostenitori del metodo FAFO, questo approccio rappresenta un antidoto alla fragilità giovanile, un modo per insegnare indipendenza e responsabilità già dalle prime esperienze di vita.
A dare visibilità a questa tendenza ci hanno pensato influencer e mamme famose come Kylie Kelce, moglie dell’ex campione del Super Bowl Jason Kelce. Nei suoi podcast e post, ha raccontato di come abbia adottato questo approccio con i suoi quattro figli, lasciandoli scoprire da soli cosa significa, ad esempio, dimenticare la merenda o non finire i compiti. Il tutto senza drammi, ma anche senza interventi immediati da parte dei genitori.
Sui social media, e in particolare su MomTok, la genitorialità FAFO è diventata virale. Decine di genitori condividono esperienze, raccontano episodi quotidiani e celebrano i piccoli successi ottenuti con questa filosofia: un figlio che ricorda finalmente di prepararsi lo zaino o che affronta le conseguenze di una dimenticanza senza crollare a terra in lacrime.
Secondo alcuni esperti, il metodo FAFO non è solo una moda passeggera, ma uno strumento che, se ben applicato, può avere ricadute positive sullo sviluppo. La psicologa clinica britannica Elina Telford sottolinea come lasciare i figli sbagliare crei occasioni preziose di resilienza e problem-solving. In altre parole, se un bambino prova cosa significa affrontare un piccolo errore, sarà più preparato ad affrontare difficoltà più grandi nella vita adulta.
Sean O’Neill, terapeuta familiare di Los Angeles, vede nel FAFO una sorta di via di mezzo fra i modelli iperprotettivi e il cosiddetto gentle parenting, spesso accusato di privilegiare la connessione emotiva senza trasmettere la giusta dose di responsabilità. Concedere libertà significa dare fiducia, ma anche insegnare che ogni azione ha un prezzo da pagare.
Non mancano però le voci critiche. Molti genitori temono che il FAFO possa trasformarsi in un approccio troppo rigido o addirittura crudele, soprattutto con i bambini più piccoli, incapaci di prevedere realmente le conseguenze delle proprie azioni. Davvero è il caso di far “imparare a proprie spese” un bambino di cinque anni, rischiando traumi o danni che avrebbero potuto essere evitati con un minimo di guida adulta?
Lo psicoterapeuta Alberto Pellai invita alla cautela. Secondo lui non esistono metodi magici e nessun modello educativo può sostituire la relazione genitore-figlio. Il rischio, avverte, è che il FAFO diventi un alibi perfetto per genitori distratti o assenti, che usano la filosofia del “lasciar fare” per giustificare la propria mancanza di attenzione.
Pellai sottolinea che crescere un figlio richiede presenza, capacità di dosare distanza e vicinanza a seconda delle situazioni, e soprattutto di assumersi la responsabilità di essere adulti con la “A” maiuscola. A volte il genitore deve stare davanti, altre volte dietro, altre ancora accanto al bambino. Ridurre tutto a un’unica formula rischia di banalizzare un compito che è per sua natura complesso e sfaccettato.
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Il metodo FAFO potrebbe essere utile come spunto per riflettere sul peso dell’iperprotezione, ma difficilmente rappresenta una ricetta universale. Se adottato con equilibrio, può insegnare ai ragazzi autonomia e pensiero critico. Se usato come scusa per disimpegnarsi, diventa invece l’ennesima moda educativa che lascia il tempo che trova, illuminata più da like e visualizzazioni che da veri risultati.
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