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Sarà capitato a tutti di ascoltare una canzone e sentire i brividi lungo la schiena o magari scatenarsi in un balletto improvvisato in cucina. Ma perché alcune persone sembrano nate per vivere di musica, mentre altre rimangono impassibili anche davanti all’assolo di chitarra più epico? La risposta, a quanto pare, si trova nel nostro DNA.
Uno studio del Max Planck Institute condotto su un campione di 9.000 gemelli ha portato alla luce una verità affascinante: il piacere musicale è in parte scritto nei geni. E no, non si parla solo di orecchio assoluto o di talento da conservatorio, ma proprio della capacità di godere emotivamente dell’ascolto musicale.
I ricercatori hanno messo a confronto gemelli omozigoti ed eterozigoti, valutando sia la loro risposta emotiva alla musica che la sensibilità alla gratificazione in generale. Il risultato? Il 54% della variabilità nel piacere musicale tra le persone è riconducibile a fattori genetici.
Ma c’è di più. I geni che ci fanno sentire bene ascoltando una melodia non coincidono con quelli legati alla musicalità vera e propria, né con quelli coinvolti nel provare piacere da altre fonti. Tradotto: si può essere stonati ma comunque capaci di commuoversi ascoltando un’orchestra sinfonica.
Lo studio ha anche mostrato che la genetica agisce su vari aspetti del piacere musicale. Alcuni geni sembrano coinvolti nella regolazione delle emozioni, altri nella predisposizione a muoversi a ritmo o nel piacere di fare musica con altre persone. Insomma, ballare senza freni a un concerto o emozionarsi al primo accordo del pianoforte potrebbe essere questione di eredità familiare più che di educazione musicale.
Questa scoperta aggiunge un tassello importante alla comprensione di come la musica influenzi la nostra vita. Non si tratta solo di gusti personali, ma di meccanismi cerebrali e genetici molto più profondi, che regolano il rilascio di dopamina e l’attivazione dei nostri sistemi predittivi quando ascoltiamo un brano familiare.
Il fatto che il piacere musicale sia in parte ereditario non esclude ovviamente il ruolo della cultura e dell’ambiente. Ma sapere che ci sono basi genetiche indipendenti dalle abilità musicali cambia le carte in tavola. Non serve essere un pianista per godersi Mozart, né un DJ per emozionarsi con l’elettronica.
Il DNA, insomma, non solo detta il colore degli occhi o il tipo di capelli, ma anche quanto ci piace muovere la testa a tempo. E magari spiega anche perché certe persone ascoltano sempre la stessa playlist da dieci anni e la trovano ancora meravigliosa.
Queste ricerche aprono nuove strade nel campo delle neuroscienze e della genetica. Comprendere meglio la connessione tra cervello, emozioni e musica potrebbe anche aiutare in ambiti terapeutici, dall’autismo alla depressione. Se alcune risposte emozionali alla musica sono “cablate” nel nostro codice genetico, allora la musicoterapia potrebbe diventare sempre più personalizzata e scientificamente fondata.
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In fondo, il fatto che la musica ci faccia sentire bene non è solo una questione di gusto. È una questione di geni. E anche se non si ereditano i dischi dei genitori, forse si eredita il modo in cui quei dischi fanno vibrare qualcosa dentro di noi.
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