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In un Paese dove la reputazione vale più dell’onestà e la vergogna pesa più della colpa, c’è chi decide di fare logout dalla propria vita. Si chiamano johatsu, letteralmente “gli evaporati”: persone che spariscono nel nulla, come vapore nell’aria. Ogni anno tra le 80.000 e le 100.000 persone in Giappone abbandonano tutto – famiglia, lavoro, identità – per ricominciare da zero altrove, senza lasciare tracce.
A rendere possibile questa “magia dell’invisibilità” ci pensano le yonigeya, vere e proprie agenzie del silenzio. Di notte organizzano fughe perfette: traslochi lampo, nuovi alloggi, lavori in nero e, nei casi più estremi, anche nuove facce grazie alla chirurgia estetica. Tutto legale, finché non si sconfinano truffe o abbandoni familiari.
Dietro il desiderio di svanire non ci sono misteri degni di un giallo, ma sentimenti molto umani: fallimenti economici, mobbing, divorzi o aspettative familiari insostenibili. In una società che teme il fallimento più della morte, sparire è spesso più accettabile che ammettere una sconfitta.
Chi “evapora” si rifugia nei quartieri dimenticati di Tokyo e Osaka, come San’ya o Kamagasaki, dove nessuno fa domande e il passato resta chiuso fuori dalla porta. Lì, tra lavoretti saltuari e silenzi densi, molti cercano una seconda vita fatta di anonimato e libertà apparente.
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Non tutti però riescono a riscrivere la propria storia. Alcuni johatsu finiscono nel mirino della criminalità organizzata, altri restano prigionieri della povertà o del rimorso. Mentre un esercito di investigatori privati lavora per ritrovarli, si alimenta un doppio mercato: quello di chi vuole sparire e quello di chi vuole riportarli indietro. Alla fine, lo johatsu resta uno specchio inquietante del Giappone moderno: un Paese dove il fallimento non si perdona, e dove scomparire può sembrare, paradossalmente, l’unico modo per restare vivi.
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