Fonte: Pexels
Salutare uno sconosciuto in città può sembrare strano, se non addirittura sospetto. Ma basta spostarsi su un sentiero alpino per scoprire che un “ciao” o un “buongiorno” diventa la regola. In montagna ignorare chi si incrocia è come presentarsi a cena senza portare neanche una bottiglia d’acqua: tecnicamente possibile, ma socialmente inaccettabile.
La ragione è semplice: meno persone ci sono in giro, più diventa importante far sapere che ci si riconosce a vicenda. Un saluto è un piccolo contratto sociale che comunica “sono amichevole e, se serve, posso aiutarti”. Non a caso gli esperti parlano di altruismo reciproco, una specie di accordo non scritto che funziona meglio del Wi-Fi nei rifugi.
Il fotografo e scalatore Galen Rowell definì questa consuetudine il “fattore ciao”. Camminare in montagna è un’esperienza fuori dall’ordinario e le persone tendono a stabilire un legame speciale, anche se dura il tempo di un passo. Quel gesto rapido diventa un modo per fermare lo sguardo sull’altro e riconoscere che, in fondo, si sta condividendo la stessa fatica.
C’è poi un aspetto pratico che pochi considerano: ricordarsi di chi si è incontrato può risultare decisivo in caso di ricerche per escursionisti dispersi. Un dettaglio come un colore dello zaino o la direzione presa può trasformarsi in un’informazione preziosa. E tutto parte da un semplice saluto.
Oltre all’aspetto pratico, c’è una dimensione culturale. Salutarsi lungo un sentiero è un modo per aderire alle regole non scritte delle comunità di montagna, spesso piccole e molto coese. Per il turista occasionale diventa anche un segno di rispetto verso chi abita quei luoghi e custodisce quelle tradizioni.
E non importa che l’altro sia un abitante locale o un turista con scarponi nuovi di zecca: condividere il sentiero significa condividere anche la passione per la montagna. In quel momento nessuno è davvero uno sconosciuto, e il “ciao” è una conferma implicita.
Ogni cultura ha adattato questo gesto. In Giappone è normale dire konnichiwa, oppure incoraggiare con un ganbatte, che equivale a un “forza, continua così”. Non rispondere a un saluto lungo un sentiero giapponese è raro e visto quasi come una stonatura.
Nelle Alpi austriache si è usata a lungo la parola bergheil, che univa il concetto di montagna a quello di salute e sicurezza. Dopo la Seconda guerra mondiale ha perso popolarità, sostituita da espressioni più neutre come servas o griaß. In Tibet, invece, si augura kalipé, ovvero “sempre con il passo lento”, un consiglio che in quota è più prezioso di qualunque app.
Il saluto è solo una parte del galateo alpino. Su un sentiero stretto, chi scende lascia il passo a chi sale, spostandosi verso la montagna. Quando si supera qualcuno nello stesso senso di marcia, la regola è avvisare con cortesia e ringraziare. Piccoli gesti che mantengono l’armonia anche quando le gambe chiedono pietà.
Leggi anche: Vado a vivere in montagna: sempre più italiani si spostano nei borghi in altura
In fondo, salutarsi in montagna non è soltanto educazione: è un rito che unisce sicurezza, tradizione e senso di appartenenza. E, a ben vedere, è anche il modo più semplice per rendere più leggero lo zaino invisibile che ognuno porta con sé lungo il cammino.
Share