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C’è una buona notizia per tutti quei lavoratori che, almeno una volta, hanno pensato di lanciare la stampante dalla finestra o dare del cretino alla fotocopiatrice. La Corte di Cassazione ha deciso che uno scatto d’ira isolato, senza aggressioni né danni reali, non può più bastare a giustificare un licenziamento per giusta causa.
La sentenza riguarda un dipendente toscano di un’azienda di imballaggi in plastica che, un brutto giorno, ha avuto un’esplosione di rabbia sul posto di lavoro. Urla, bestemmie e qualche calcio a dei flaconi: nessun collega ferito, nessun danno rilevante. Ma l’azienda ha comunque scelto la strada più drastica: licenziamento. Peccato che la Cassazione non abbia visto la cosa allo stesso modo.
I giudici hanno stabilito che il comportamento, seppur discutibile, non costituiva una minaccia per la sicurezza dei colleghi o per il patrimonio aziendale. Il lavoratore, in servizio dal 1999, era semplicemente stressato. Uno stato d’animo che, secondo la Corte, è anche responsabilità del datore di lavoro, specie se l’ambiente è rumoroso, opprimente e a rischio burnout.
In effetti, nessuno dei presenti ha confermato episodi violenti. Un testimone ha persino dichiarato di non aver sentito nulla a causa del rumore dei macchinari e delle cuffie. Quindi, niente urla allarmanti, solo il classico sfogo di chi ha avuto una giornata decisamente storta.
Un elemento centrale della sentenza è proprio l’ambiente lavorativo. Ritmi serrati, scadenze continue e rumori assordanti non aiutano il benessere psichico. E quando un’azienda non fa nulla per migliorare il clima, non può poi indignarsi se qualcuno sbrocca. Il principio di corresponsabilità del datore è stato esplicitamente richiamato dalla Cassazione.
La decisione non autorizza a insultare il capo ogni lunedì mattina, ma invita a una valutazione più umana del contesto. In pratica, se il dipendente perde la pazienza una volta ogni dieci anni, si può forse evitare la sanzione più estrema.
Secondo la Suprema Corte, non sono più giusta causa per il licenziamento certi comportamenti impulsivi, se restano entro certi limiti. Includono urla, parolacce, bestemmie (sì, anche quelle), e qualche colpo inferto a oggetti non danneggiati. L’importante è che nessuno finisca all’ospedale e che il computer resti funzionante.
La linea tracciata è chiara: la reazione emotiva, se isolata e non violenta, non è un attentato alla convivenza aziendale. E vista la media dello stress lavorativo in Italia, forse era ora di riconoscerlo anche a livello giuridico.
Il contesto italiano non aiuta. Secondo i dati più recenti, quasi il 75% dei dipendenti soffre di ansia legata al lavoro, e oltre il 60% sperimenta livelli di stress elevati. Non sorprende quindi che qualcuno possa alzare un po’ la voce o prendere a calci un flacone in plastica. L’importante è che non succeda ogni giorno.
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La sentenza non cancella il malessere nei luoghi di lavoro, né cambia magicamente il modo in cui le aziende gestiscono la pressione. Ma lancia un messaggio chiaro: lo sfogo momentaneo non è più un crimine capitale. E in certi casi, l’azienda farebbe meglio a rivedere l’organizzazione interna invece di cercare capri espiatori tra i lavoratori esausti.
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