Revenge Quitting: la vendetta è servita (durante l’orario d’ufficio)
- Il revenge quitting è la tendenza a licenziarsi di colpo per mettere in difficoltà l’azienda
- Nasce dalla frustrazione e dal burnout, spesso causati da ambienti di lavoro tossici
- Diffuso tra i GenZ, ma non solo: anche altri dipendenti si sentono “intrappolati”
- Alcuni lasciano senza preavviso né alternative lavorative o risparmi
- È una forma di protesta, ma rischia di compromettere le referenze future
Non basta più fingere di essere impegnati, come nel caso del mask tasking, la nuova frontiera del malcontento in ufficio si chiama revenge quitting. Un nome che sembra uscito da una saga post-apocalittica, ma che in realtà descrive una dinamica ben concreta: ci si licenzia di colpo, senza preavviso, con il preciso intento di lasciare l’azienda nel caos più totale.
La moda è partita da quei Paesi in cui il mercato del lavoro è piuttosto flessibile, come l’Australia, ma sta trovando terreno fertile ovunque si respiri un’aria di frustrazione aziendale. È il caso di Grace Sarah, giovane impiegata nel settore immobiliare, che ha salutato tutti senza pensarci troppo, né ai risparmi né a un nuovo impiego. Non si è guardata indietro. Anzi, ha fatto della sua uscita una dichiarazione d’indipendenza.
Burnout e frustrazione: il carburante perfetto per il revenge quitting
Il fenomeno non è un capriccio, ma una risposta esasperata a condizioni lavorative sempre più stressanti. Secondo un report di Glassdoor, ben il 65% dei dipendenti si sente intrappolato in un lavoro tossico, spesso aggravato dal ritorno forzato in ufficio dopo la pandemia. Addio smart working, bentornato pendolarismo e open space chiassoso.
Il burnout è il principale responsabile di questo esodo improvviso. E non lo dice un influencer con troppe opinioni, ma Julie Lee Lee, co-presidente della Harvard Alumni for Mental Health. Secondo lei, il ruolo dei manager è decisivo: dovrebbero monitorare il benessere psicologico dei collaboratori, ma troppo spesso preferiscono ignorare i segnali finché non è troppo tardi. Letteralmente: finché non ricevono una lettera di dimissioni improvvisa, magari il lunedì mattina.
Revenge quitting: tra giustizia personale e boomerang professionale
Questa forma di protesta è soprattutto un messaggio: non sono i dipendenti ad abbandonare l’azienda, è l’azienda che li ha spinti a farlo. Un messaggio chiaro, sì, ma non privo di rischi. Prendiamo Adam, dipendente modello solo fino all’ultimo giorno. Ha filmato tutte le violazioni di sicurezza sul posto di lavoro e ha pubblicato tutto online. Il risultato? Multa all’azienda, applausi sui social e un bel punto di domanda sul suo futuro lavorativo.
Perché se è vero che vendicarsi fa bene al morale, è altrettanto vero che le referenze esistono. E quando qualcuno chiamerà il vecchio capo per sapere com’era Adam in azienda, è difficile che la risposta sarà: “Professionista impeccabile, amava molto riprendere le nostre mancanze”.
Generazione Z e non solo: la stanchezza è trasversale
Il revenge quitting è spesso attribuito alla GenZ, quella fascia nata tra il 1995 e il 2012. Ma in realtà, la frustrazione non ha età. Chiunque si trovi a lavorare in un ambiente opprimente può arrivare al punto di rottura. Non si tratta di pigrizia, ma di una reazione a dinamiche aziendali sempre meno umane.
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L’addio improvviso diventa quindi l’unica leva di potere a disposizione del lavoratore. Non per ottenere qualcosa, ma per fare rumore. E se da un lato può sembrare una mossa avventata, dall’altro è il sintomo di un malessere profondo che non si può più ignorare. Perché quando il posto fisso diventa una trappola, la fuga a sorpresa è quasi un atto di sopravvivenza.

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- https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/03/18/frustrati-e-pieni-di-rabbia-si-dimettono-allimprovviso-nel-momento-piu-adatto-per-mettere-in-difficolta-lazienda-cose-il-revenge-quitting/7918543/
- https://www.fortuneita.com/2025/02/09/dipendenti-frustrati-ii-2025-e-lanno-del-revenge-quitting/