Chi si proclama libero da pregiudizi rischia di essere il più discriminante: lo conferma uno studio che mette in luce il legame tra negazione del bias e comportamento sessista
- Chi nega di avere pregiudizi verso le donne tende a discriminare di più, secondo un recente studio psicologico
- La dissonanza cognitiva gioca un ruolo cruciale nel giustificare i comportamenti discriminatori nonostante la convinzione di essere equi
- La consapevolezza dei propri bias è fondamentale per costruire una società più giusta e inclusiva
- Le organizzazioni devono implementare formazione, valutazioni e politiche trasparenti per affrontare la discriminazione sistemica
- La cultura e la biologia contribuiscono alla nascita e alla perpetuazione dei pregiudizi: combatterli richiede impegno collettivo e costante
Un recente studio ha scoperchiato un paradosso sociale tanto sottile quanto preoccupante: chi afferma di non avere pregiudizi verso le donne è, molto spesso, proprio chi mette in atto le forme più subdole di discriminazione. In altre parole, negare di avere bias potrebbe essere il primo campanello d’allarme che qualcosa, in fondo, non torna. Altro che superiorità morale: l’eccessiva sicurezza di essere “giusti” e “progressisti” potrebbe invece nascondere le radici più profonde della disuguaglianza di genere.
Questa sorprendente scoperta emerge da una ricerca condotta da un team internazionale di psicologi e sociologi, che ha indagato le dinamiche tra auto-percezione, atteggiamenti impliciti e comportamenti reali, svelando quanto la distanza tra ciò che pensiamo di essere e ciò che realmente facciamo possa diventare pericolosa.
Quando il “non sono sessista” rivela il contrario: lo studio svela l’inganno della dissonanza cognitiva nei comportamenti discriminatori
Il campione analizzato dallo studio era composto da individui con profili socio-demografici differenti per età, provenienza geografica, livello d’istruzione e background culturale. I partecipanti sono stati sottoposti a un mix di strumenti ben calibrati: questionari, interviste approfondite e, soprattutto, il famigerato IAT – test dell’associazione implicita, noto per misurare pregiudizi non dichiarati ma profondamente radicati.
I risultati hanno lasciato poco spazio ai dubbi: chi si dichiara totalmente privo di pregiudizi tende a mostrare comportamenti discriminatori in modo più sistematico rispetto a chi, con onestà, riconosce di avere qualche bias. Questa contraddizione viene spiegata attraverso il concetto di dissonanza cognitiva: le persone cercano di mantenere coerenza tra ciò che pensano di essere e ciò che fanno. Se una persona si autodefinisce “senza pregiudizi”, non può (secondo la propria logica interna) agire in modo discriminatorio. Ma quando lo fa – inconsciamente – il cervello attiva una serie di meccanismi di giustificazione e razionalizzazione che rinforzano, e non riducono, la discriminazione.
In breve: chi si crede perfettamente imparziale rischia di essere il più cieco rispetto ai propri comportamenti sessisti.
Educazione, formazione e responsabilità collettiva: le armi contro i pregiudizi invisibili ma letali
Le implicazioni sociali di questa ricerca sono tutt’altro che marginali. Anzi, mettono in discussione l’intero approccio alle politiche di inclusione e parità di genere. Per creare ambienti davvero equi, non basta dire “io non sono sessista” e confidare nella propria coscienza immacolata. Serve qualcosa di molto più impegnativo: auto-riflessione critica, ascolto attivo del feedback esterno e educazione continua.
Le organizzazioni – pubbliche e private – devono passare dalle buone intenzioni ai fatti. Come? Investendo in formazione obbligatoria sui pregiudizi impliciti, attivando sistemi di monitoraggio e valutazione delle decisioni aziendali e, soprattutto, coltivando una cultura della trasparenza e della responsabilità. Solo così si possono correggere comportamenti discriminatori e creare un ambiente dove il bias non trova terreno fertile.
Non meno importante è la diffusione di programmi educativi che promuovano diversità, empatia e comprensione interculturale già a partire dalle scuole. Perché i pregiudizi, come l’influenza, si diffondono rapidamente e senza fare troppo rumore. Ma a differenza dell’influenza, non basta un’aspirina per curarli.
Pregiudizi tra biologia e cultura: il mix esplosivo che alimenta le disuguaglianze
La ricerca non si limita a osservare il presente, ma affonda le mani nelle origini stesse del pregiudizio. Secondo diverse teorie evolutive, l’essere umano è naturalmente portato a categorizzare, distinguere, semplificare. Una strategia utile in epoche in cui bisognava decidere, nel giro di pochi secondi, se chi avevamo davanti era un potenziale alleato o una minaccia. Ma quel meccanismo di sopravvivenza oggi si scontra con una società infinitamente più complessa.
La cultura, poi, fa il resto. Le norme sociali, i ruoli di genere, le aspettative tramandate di generazione in generazione – tutti questi fattori contribuiscono a radicare bias difficili da estirpare. La cosiddetta teoria culturale del pregiudizio mostra come stereotipi e discriminazioni non siano il frutto di singole cattive intenzioni, ma il risultato di sistemi educativi, comunicativi e relazionali che li normalizzano, li giustificano e li riproducono.
Ed è proprio questo l’aspetto più subdolo dei pregiudizi: non hanno bisogno di chi li sostiene attivamente. Gli basta che nessuno li metta davvero in discussione.

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- https://news.yahoo.com/bias-against-women-driven-people-think-doesnt-exist-005722266.html
- https://www.barrons.com/news/bias-against-women-driven-by-people-who-think-it-doesn-t-exist-study-01593435604?tesla=y
- https://www.humanrightscareers.com/issues/prejudice-101-definition-facts-examples/
- https://www.annefrank.org/en/topics/prejudice-and-stereotypes/what-can-you-do-against-prejudice/