Pitagora e la sua avversione per delle fave: la strana ossessione che gli costò la vita

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Pitagora e la sua avversione per delle fave: la strana ossessione che gli costò la vita

| 05/06/2025

La repulsione di Pitagora per le fave: tra superstizione, filosofia e tragedia

  • Pitagora aveva una vera e propria avversione per le fave, ritenute contenitori di anime reincarnate
  • Vietò ai suoi discepoli di consumarle o anche solo di calpestarle
  • La sua morte potrebbe essere stata causata proprio dal rifiuto di attraversare un campo di fave durante una fuga
  • Le sue convinzioni spirituali coesistevano con un profondo sapere scientifico e matematico
  • La scuola pitagorica rappresentò un unicum nella storia antica, unendo scienza, etica e religione

 

Pitagora, il celebre filosofo e matematico nato nell’isola di Samo tra il 580 e il 570 a.C., è conosciuto universalmente per il teorema che porta il suo nome, pilastro fondamentale della geometria. Ma oltre ai numeri e ai triangoli rettangoli, la sua figura storica è circondata da una serie di convinzioni stravaganti, alcune delle quali sfiorano la superstizione pura. Tra queste spicca la sua nota avversione per le fave, che considerava non solo impure, ma addirittura pericolose dal punto di vista spirituale e morale. E non stiamo parlando di una semplice antipatia alimentare: per Pitagora, quel legume rappresentava qualcosa di profondamente inquietante.

Una convinzione insolita: perché Pitagora considerava le fave un simbolo di morte e reincarnazione

Tra i tanti divieti imposti ai membri della sua scuola, quello che più sorprende è proprio l’assoluto rifiuto di consumare fave. Il motivo? Pitagora riteneva che questi legumi avessero una forma simile a quella dei feti umani. Ma la somiglianza visiva era solo la punta dell’iceberg: secondo il filosofo, le fave contenevano al loro interno le anime dei morti. Schiacciarle, mangiarle o semplicemente camminarci sopra equivaleva, a suo dire, a un atto di cannibalismo.

Il pensiero pitagorico era intriso di spiritualismo e credenze legate alla metempsicosi, ovvero la trasmigrazione delle anime. In questa visione, ogni essere vivente poteva, dopo la morte, reincarnarsi in una nuova forma, e le fave, per qualche ragione a noi oscura, erano considerate una possibile dimora per queste anime erranti. Da qui il rigido divieto non solo di mangiarle, ma anche di entrare in contatto con esse. Il rispetto di questa regola era così assoluto che lo stesso Pitagora, secondo alcune fonti, avrebbe preferito morire piuttosto che infrangerla.

Il campo di fave e la morte del filosofo: quando l’ideologia costa la vita

L’episodio più emblematico e tragico legato alla repulsione di Pitagora per le fave è senza dubbio quello della sua morte. Durante una rivolta scoppiata a Crotone, nel sud Italia, dove il filosofo aveva fondato la sua scuola, Pitagora e i suoi seguaci furono presi di mira da un gruppo di rivoltosi. La leggenda narra che a scatenare l’odio popolare fu il rifiuto di ammettere il figlio di un nobile all’interno della comunità pitagorica. Il risultato fu un vero e proprio massacro.

Mentre il caos regnava, Pitagora riuscì inizialmente a fuggire. Ma nel suo tentativo di salvezza, si trovò davanti a un ostacolo insormontabile: un campo di fave. L’unica via di fuga lo costringeva ad attraversarlo, calpestando inevitabilmente le piante che tanto disprezzava. Paralizzato dal terrore di compiere un gesto che riteneva sacrilego, il filosofo preferì fermarsi. Fu lì, in mezzo a quella piantagione di legumi, che venne raggiunto dai suoi inseguitori e ucciso a coltellate. Una fine tanto assurda quanto coerente con le sue convinzioni.

Questo episodio, oltre a essere raccontato con una punta di macabra ironia dagli storici, rappresenta un perfetto esempio del conflitto tra fede e sopravvivenza. Pitagora, uomo di straordinaria intelligenza, si dimostrò talmente fedele ai propri principi da sacrificare la propria vita per non calpestare delle semplici fave. Un gesto che oggi appare surreale, ma che, nel contesto delle sue credenze, rispecchia la coerenza assoluta del pensiero pitagorico.

Un’eredità che unisce scienza, filosofia e superstizione in modo unico e affascinante

Nonostante – o forse proprio grazie – a queste sue eccentricità, Pitagora continua a essere una delle figure più affascinanti dell’antichità. La scuola pitagorica, fondata a Crotone, fu non solo un centro di studio matematico, ma anche una comunità spirituale dove scienza, religione e filosofia si intrecciavano in un sistema complesso e rigoroso.

Il teorema di Pitagora resta una delle scoperte più celebrate della matematica, studiata ancora oggi in ogni scuola del mondo. Ma la sua figura va ben oltre il triangolo rettangolo. I pitagorici credevano che l’universo stesso fosse governato dall’armonia dei numeri. Questa visione ha influenzato profondamente la musica, la cosmologia e la filosofia occidentale per secoli.

Allo stesso tempo, la rigidità delle loro regole quotidiane, come non indossare lana o calzare i sandali in un ordine preciso, ci ricorda quanto la razionalità potesse convivere con una visione quasi mistica della realtà. Il vegetarianismo, la purificazione rituale e la fede nella reincarnazione erano parte integrante della vita pitagorica, segni tangibili di un approccio alla conoscenza che univa corpo, mente e spirito.

Oggi, rileggere la storia di Pitagora con occhi moderni ci permette di cogliere la straordinaria complessità di un uomo capace di coniugare genialità scientifica e credenze personali al limite dell’assurdo. In lui convivono il rigore del matematico e la passione del mistico, il raziocinio del filosofo e l’intransigenza del predicatore. E forse è proprio questo dualismo a renderlo tanto umano, tanto irripetibile.

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