TikToker in cella per un taglio di capelli suggerito a Gesù: lo strano caso

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TikToker in cella per un taglio di capelli suggerito a Gesù: lo strano caso

| 23/05/2025
Fonte: Wikipedia

TikTok e blasfemia in Indonesia: un taglio di capelli di troppo per Gesù

  • La TikToker indonesiana Ratu Thalisa è stata condannata a quasi 3 anni di carcere per blasfemia
  • Durante una diretta ha risposto a un commento mostrando un’immagine di Gesù e suggerendogli di tagliarsi i capelli
  • Il tribunale l’ha giudicata colpevole di incitamento all’odio e disturbo dell’ordine pubblico
  • Amnesty International ha definito la condanna un attacco alla libertà di espressione
  • La legge indonesiana EIT viene spesso usata contro contenuti ritenuti blasfemi, anche su TikTok

 

La libertà d’espressione su internet ha appena trovato un nuovo limite, e stavolta si tratta di un’acconciatura divina. Ratu Thalisa, influencer indonesiana con quasi mezzo milione di follower su TikTok, è stata condannata a due anni e dieci mesi di carcere per un commento giudicato blasfemo. La sua colpa? Aver suggerito a un’immagine di Gesù di andare dal parrucchiere. Un gesto ironico durante una diretta, nato per rispondere a chi le diceva di sembrare troppo femminile.

La scena è a dir poco surreale seppur nella sua brevità: Thalisa prende il cellulare, mostra una foto di Gesù e pronuncia la frase “Anche tu dovresti tagliarti i capelli per assomigliare a tuo padre”. A quel punto, sono bastati pochi giorni e cinque denunce da parte di gruppi cristiani per innescare un processo che ha fatto il giro del mondo.

Condanna per blasfemia: non un’ottima idea il taglio di capelli a Gesù

Il tribunale di Medan, a Sumatra, ha stabilito che le parole di Thalisa non solo costituivano blasfemia, ma anche incitamento all’odio e minaccia all’ordine pubblico. Una decisione che le è costata quasi tre anni dietro le sbarre e una multa di circa 6.200 dollari. Per la legge indonesiana EIT (Electronic Information and Transactions), anche una battuta online può diventare un reato, soprattutto se sfiora il sacro.

La legge, creata nel 2008 e riformata nel 2016, era nata per tutelare la reputazione sul web. Col tempo, però, è diventata un vero incubo per influencer e utenti social: solo tra il 2019 e il 2024, oltre 400 persone sono state condannate per violazioni legate alla libertà d’espressione online. E non si tratta solo di religione: anche l’ironia rischia di essere messa all’indice.

Libertà d’espressione sotto processo: la posizione di Amnesty

Amnesty International non ha usato mezzi termini: la condanna è “scioccante” e rappresenta un pericoloso precedente per chiunque osi scherzare sui temi religiosi. Secondo l’organizzazione, le parole di Thalisa non raggiungono nemmeno lontanamente il livello di incitamento all’odio previsto dal diritto internazionale. La battuta incriminata, insomma, sarebbe solo un esempio di umorismo – forse poco opportuno, ma non criminale.

Anche altri casi simili stanno emergendo nel Paese: una donna musulmana ha scontato due anni di carcere per aver recitato una frase islamica prima di mangiare carne di maiale, e un altro TikToker è finito in tribunale per un quiz ritenuto offensivo nei confronti del Corano. Il confine tra offesa e libertà è sempre più sottile e arbitrario.

Fede, legge e social media

Nel caso di Thalisa c’è anche una componente rara: è una musulmana accusata di blasfemia contro il cristianesimo, un’inversione rispetto alla consueta dinamica. Tuttavia, il risultato non cambia: carcere, appelli e polemiche. Le autorità indonesiane sembrano molto determinate a far rispettare il silenzio dove c’è dibattito, e la spiritualità diventa terreno minato anche nei contenuti più leggeri.

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Mentre i legali di Thalisa preparano l’appello e i sostenitori della libertà digitale protestano, resta una domanda sul tavolo: può davvero un commento ironico su TikTok diventare una questione di sicurezza pubblica? Oppure il vero problema è l’incapacità delle istituzioni di distinguere tra provocazione e pericolo? Per ora, la risposta è dietro le sbarre. E a quanto pare, anche un semplice taglio di capelli può diventare materia di sentenza.

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